Numero Zero

Ascoltare un fuoco

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A casa ho una vecchia radio, credo degli anni Cinquanta. La spina sfrigola un po’ quando la inserisci, però funziona ancora. E così ogni tanto la accendo. E quando giro la manopola – è piccola, di un bianco sporco che ricorda l’avorio – è come accendere un fuoco e sedersi lì, con la notte che preme ai bordi della luce, a farsi raccontare delle storie.

Forse oggi, nel giorno del world radio day, dovremmo ricordarci di questa sensazione: dell’idea che anche adesso, che la radio la ascoltiamo in tanti altri modi, con gli smartphone, via web, in auto, in televisione, alla fine quello che stiamo facendo è avvicinarci ad un fuoco a sentire che si dice. Potremmo prendere la parola se volessimo, ma credo che la maggior parte di noi preferirà stare in silenzio ad ascoltare.

E però non sarà un ascolto passivo: parteciperemo di quelle parole, di quei discorsi, delle canzoni che qualcuno avrà deciso di cantare e che noi, ascoltandole, faremo nostre.

Ascolto individuale ed emozione collettiva, questa (anche questa) è la radio. L’ascolto è distratto, superficiale, discontinuo, eppure se c’è qualcosa che ci interessa, che ci piace, che ci emoziona, ci blocchiamo e proviamo ad isolare tutti gli altri suoni per connetterci solo con quello che ci ha appena colpito. E allora sentiamo di far parte di una comunità, di un gruppo: siamo lì, intorno al fuoco, con persone che non abbiamo mai visto ma che ci sembra di conoscere.

Del resto, una delle qualità della radio è che va oltre le barriere, supera i confini. Una delle sue caratteristiche essenziali è proprio l’essere transnazionale, tanto che si è cercato di darle delle regole internazionali sin dal suo apparire: il primo tentativo è del 1925, con la fondazione della International Broadcasting Union, nata pochi anni dopo le radio nazionali negli Stati Uniti e in Europa.

Nonostante i tentativi di zittirne la voce, prima della Seconda guerra mondiale la radio aveva portato in Italia voci che avevano dato speranza agli antifascisti, facendogli sentire che non erano soli. E poi, negli anni Quaranta, aveva rinforzato la volontà di finire la guerra in quanti ne erano stanchi: e aveva fatto balenare nella densa oscurità del conflitto quelle scintille che prefiguravano un mondo nuovo, tutto da costruire.

E, ancora, in un’epoca più felice, negli anni Sessanta, aveva portato parole e suoni e ritmi da luoghi lontani e poco conosciuti, aprendo ancora una volta le porte di un mondo nuovo e tutto da esplorare.

E ancora oggi è alla radio che si avvicinano le orecchie di chi non ha accesso ad altre e più moderne forme di comunicazione: «schiacciati gli uni sugli altri in questo misero lembo di terra sovraffollato a Sud della Striscia di Gaza, sopravviviamo incollati alle radio e i nostri umori, speranze, sentimenti sono interamente determinati dalle notizie che arrivano da fuori», ha scritto qualche giorno fa il giornalista Sami al-Ajrami.

Ma la radio non è solo dispensatrice di notizie o intrattenimento, musica e chiacchiere. È soprattutto una generatrice di cultura, sempre se pensiamo a “cultura” come qualcosa – qualsiasi cosa – che ci permette di accedere a luoghi e mondi che non conosciamo. Erano cultura le canzoni che Radio Montecarlo trasmetteva in Italia negli anni Sessanta, canzoni che qui erano considerate scandalose e immorali.

Ed è cultura navigare tra le frequenze alla scoperta di suoni nuovi o di un modo mai sentito di parlare: lo facevano negli anni Venti e Trenta i “navigatori dell’etere” e potremmo farlo ancora oggi quando andiamo in un paese sconosciuto, se solo non fossimo così pigri dal rinchiuderci nella nostra bolla di playlist preconfezionate. E poco importa se ci piace usare altri nomi – podcast su tutti – per parlare di questi fuochi di suoni e parole che ci raccontano storie e aprono mondi sconosciuti: se non è sempre radio, alla fine è da lì che tutto è nato e non è molto lontano da lì che va.

Andrea Sangiovanni

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